I social al tempo del coronavirus
E’ una fortuna oggi poter usufruire della comunicazione virtuale. L’etere ci è venuto in soccorso diventando l’unica modalità attraverso cui poter comunicare in condizioni di totale sicurezza. Cosa sta cambiando, in questo periodo, nell’uso nonché nei contenuti dei social media? Di certo si registra un aumento del tempo che tutti trascorriamo dietro lo schermo; per diversi motivi che vanno dal lavoro allo studio, alla comunicazione, alla ricerca del “relazionale”, alla ricerca di informazioni. Ci interessano le informazioni della politica e degli scienziati sulla pandemia. E anche in questa occasione, come in altri periodi, non siamo immuni dal poter cadere vittime delle fake news o dal dare ascolto a personaggi dello spettacolo o del popolo che di pandemia non sanno assolutamente nulla. Dovremmo accettare, per quanto sia poco rassicurante, che anche gli scienziati non ne sanno molto e sono al lavoro per scoprire chi è il COVID19 e come agisce. Gli scienziati e i ricercatori fanno ciò attraverso la ricerca, non quella su google, ma quella "seria" che si fa nei laboratori e che da anni ha adottato il metodo sperimentale. Apro la pagina di FB, la guardo con gli occhi di un osservatore che cerca di farsi attento e noto che si sono moltiplicati i video di cucina e vedo foto di tanti piatti dall’aspetto piuttosto invitante. Per contro sono in netta riduzione i selfie (anche quelli a cui vengono applicati i filtri cancella rughe e illuminanti dei volti). Il cambiamento dei social riflette come uno specchio, anche se con qualche inevitabile deformazione, il cambiamento di alcune nostre abitudini. E un cambiamento sta nel fatto che molte donne sono tornate alla cucina. Sono tornate alla cucina perché prima ancora sono tornate ad essere nelle case all’ora di pranzo e di cena. Nessuno è assente, tutti presenti, in qualsiasi giorno della settimana intorno alla tavola come non accadeva dal tempo dei nostri nonni. La nostra mente attiva dei meccanismi per proteggersi dalla paura e dall’orrore e per fortuna molti attivano risorse, scoprendo o riscoprendo resilienza e doti che non sapevano di avere. Cosa posso fare di più rassicurante che cucinare per creare calore e coesione? Il piatto caldo, il dolce anche un po’ elaborato rappresentano una risposta, la risposta della famiglia che si è ritrovata e che si raduna intorno ad un focolare nuovo. I piatti che vediamo non rispecchiano semplicemente una moda, sono lo specchio di una risposta o di un tentativo di risposta rassicurante. All’interno delle case quei piatti vengono cucinati talvolta anche insieme ai propri ragazzi e al partner se presente. Fuori dalle generalizzazioni siamo consapevoli che non per tutti la casa è un luogo sicuro, e che essere soli in questo periodo può accentuare il senso di solitudine. Anche il canto ai balconi è stato una risposta, così come lo sono state le scritte “andrà tutto bene” esposte alle finestre di molte case degli italiani. Ma questo fenomeno ha avuto una durata temporale minore. Questo fenomeno è stato l’agito di un impulso forte alla socialità, che ha cercato un modo in cui poter “essere con”, un modo per potersi almeno sentire, lì dove non si riusciva magari neppure a vedersi. Purtroppo però non abbiamo nel nostro substrato culturale una storia di comunità fondata su un legame, già preesistente, con il nostro vicinato. Noi abbiamo un substrato di cultura di isolamento dal vicinato, di libertà assoluta nella scelta delle relazioni che vogliamo coltivare. Del nostro substrato non fa parte la vicinanza spaziale, ne fanno invece parte la libertà dell’esplorazione e della scelta, operata sulla base della “comunità” di interessi, delle affinità o, ahimè, del consumo e dell’utilità! Abbiamo invece nel nostro immaginario un focolare, la cui idea non è del tutto sbiadita, conserva ancora una forza; un focolare dunque a cui poter attingere perché più “vicino” a una radice da cui è pur vero che ci siamo allontanati ma non tanto da non poterla ritrovare. Un’altra figura che riempie le pagine dei social è quella dell’operatore sanitario, nella veste del medico, degli infermieri, degli operatori che a vario titolo sono in ospedale, e dunque sono esposti ad un enorme rischio fisico e psicologico. Dottori e infermieri sono dipinti come eroi, anche se vorrebbero che noi smettessimo di chiamarli in questo modo, che rimanessimo invece a casa per dare loro una mano, e che lo stato aumentasse i loro stipendi. Sarebbe giusto: mi chiedo quale potrebbe essere il valore in termini economici da corrispondere a tutti coloro che in questo momento stanno correndo un rischio mai messo in conto perché impossibile fino a “ieri” da prevedere. Gli operatori sanitari sono come in una guerra, soprattutto coloro che lavorano nelle stanze delle rianimazioni e stanno vivendo esperienze di traumatizzazione a causa delle quali, quando la loro “guerra” sarà terminata, avranno bisogno di un aiuto specialistico per elaborare ciò che oggi non è ancora possibile elaborare. E ancora, tra le altre che vorrei citare, ci arrivano le immagini del mondo lì fuori; Immagini di città che, vuote, esprimono tutta la loro bellezza, anche se ci trasmettono un senso di desolazione. Ci arrivano poi immagini della natura, paesaggi, scorci di spiagge e di mare. Ci arriva l’immagine di un mare limpido e cristallino, ora che noi lo stiamo lasciando respirare. E la natura è lì a dirci che vive da molto prima di noi, e che senza di noi respira meglio, perché il coronavirus è il nostro virus come noi siamo il suo.
0 Comments
Your comment will be posted after it is approved.
Leave a Reply. |
AutoreDott.ssa Assunta Giuliano Archivi
Marzo 2022
Categorie |