Scegliere un terapeuta on line è una faccenda complicata che genera una serie di dubbi, di giusti dubbi perché la terapia riguarda quello che di più profondo di noi mostriamo all’altro, in un momento in cui per altro ci percepiamo fragili. Tutti, o quasi tutti i professionisti hanno una pagina facebook, un sito web. Anche io li ho e da lì è possibile accedere alle informazioni sulla psicoterapia. Qui vi parlo di me. Sono laureata in psicologia clinica e specializzata in psicoterapia cognitivo comportamentale, nonché terapeuta EMDR di II livello. Iscritta all’ordine degli psicologi della Regione Campania con annotazione nel registro degli psicoterapeuti. Questi sono dati che andrebbero sempre verificati prima di contattare qualsiasi professionista. Per trarre informazioni sul processo della psicoterapia cognitivo comportamentale e EMDR vi rimando al sito web www.dottoressagiuliano.com. L’approccio cognitivo comportamentale e EMDR sono strumenti nella mia “cassetta degli attrezzi” che permettono di lavorare sui pensieri, sulle emozioni e sul corpo. Da alcuni anni pratico yoga e i vantaggi di avere un contatto con il corpo e di poterlo sentire nel “qui ed ora” sono molti. Talvolta incontro pazienti che avvertono di non sentire più il contatto con il proprio corpo e con le emozioni nel loro ventaglio variegato; in questa fase le persone riferiscono di sentire solo ansia, o tristezza. La mia esperienza personale con lo yoga insieme all’approccio EMDR, che è centrato sulle emozioni e sul corpo, sono per me strumenti che integrano la terapia cognitivo comportamentale. Ritrovare l’equilibrio passa attraverso il ritrovamento dell’unità mente/corpo e il potersi vivere, liberi, il momento presente, dove non c’è l’angoscia del futuro e non ci sono la sofferenza e le amarezze del passato. Ritorno a me per dirvi che svolgo il mio lavoro da diversi anni. Ho studio a Napoli, nella zona dei Colli Aminei. La modalità di lavoro on line che usavo già da prima che arrivasse la pandemia da Covid19 è a mio parere uno strumento molto valido. Ha permesso di proseguire terapie che diversamente sarebbero state interrotte, per trasferimento, per cambiamenti di vita, o a causa del look down totale del 2020. Nel lavoro on line, come in quello allo studio, può avvenire l’identico processo di conoscenza, di crescita della relazione terapeutica. La crescita della diade terapeutica e della fiducia nell’altro e nella propria possibilità di modificarsi e gestire le paure seguono il medesimo percorso. In conclusione si può arrivare ad affidarsi o meno all’altro nell’identico modo. Questo dipenderà dalle caratteristiche della diade. Fattori del terapeuta che favoriscono una buona relazione col paziente, sono le competenze, l’esperienza, e le capacità empatiche e relazionali. In alcuni casi l’inizio di una terapia on line può rappresentare il lavoro sulla patologia e sugli evitamenti relativi, che di solito consistono nell’isolamento, nella chiusura relazionale, o nel caso più eclatante, nella chiusura nella propria casa o nella propria stanza. Restare in queste zone di comfort ha la conseguenza di esasperare i sintomi, e di sentirli in modo soverchiante una volta che si tenta qualche esposizione. Un lavoro nella zona di comfort per capire il proprio funzionamento e gestire i sintomi ci può poi portare all’esterno della stanza, della casa, nel mondo esterno e relazionale. Qualunque sia il disagio psicologico di cui una persona soffre, la soluzione viene proposta dallo psicoterapeuta e concordata con il paziente, non imposta dall’esterno. L’immagine del lavoro della terapia è quella di un lavoro a quattro mani. Le conquiste sono del paziente, consistono nell’ imparare a prendersi cura di sé, nel sentire il potere di scegliere azioni, reazioni, persone. Il paziente trova il modo per essere, alla fine del processo, terapeuta di sé stesso. Tutti dobbiamo diventarlo per vivere una vita almeno serena, e perché no, soddisfacente. Soprattutto in questo tempo, che ci chiede molta resilienza, che noi possiamo costruire con le scelte, le relazioni, il lavoro su quali pensieri nutrire nella nostra testa e su che cosa scegliere fuori di noi.
0 Comments
Quando il trauma diventa un disturbo d’ansia e persiste la sensazione di essere sempre potenzialmente in pericolo la risposta è una psicoterapia centrata sul trauma.
I traumi sono ferite dell’anima. Alcune ferite guariscono, altre non smettono mai di sanguinare. Quando non riusciamo a guarire da un evento traumatico, smettiamo di vivere e cominciamo a sopravvivere. Quasi tutti possiamo ricordare di un evento che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo. Un evento che ha modificato, dentro di noi, pensieri ed emozioni e di conseguenza le nostre aspettative e il nostro comportamento. Quando, dopo un evento traumatico, riusciamo a guarire, smettiamo di sanguinare e la nostra vita riacquista un completo significato. Torniamo, anche se modificati, ad un nuovo stato di benessere. Quando ciò non accade, quando la ferita non si rimargina, la sofferenza diventa patologia. Accade che sensazioni, emozioni e pensieri disturbanti rimangono sullo sfondo della quotidianità, come un fastidioso rumore di fondo. Se non ci occupiamo di curare la ferita si può sviluppare un Disturbo Post Traumatico da Stress. In tal caso, anche se sono passati mesi, oppure anni dalla situazione traumatica è come se questa fosse sempre e ancora lì. Qualsiasi stimolo che la ricorda può riattivare il ricordo dell’evento traumatico: una strada, un luogo, un volto, un odore, una sensazione. Quando un trauma resta irrisolto attiva un circolo vizioso, e allora una notizia al telegiornale, un rumore improvviso, un espressione minacciosa possono attivare emozioni, sensazioni e pensieri che erano attivi durante l’esperienza traumatica. Ed ecco che arriva la paura. Quando sta per accadere qualcosa di pericoloso prima sentiamo la paura e solo dopo capiamo cosa è accaduto. Questo perché sentire la paura attiva una risposta di difesa immediata che ci permette di affrontare il pericolo ancora prima di aver valutato di che pericolo si tratti. Posso accedere ad un ricordo della mia infanzia per spiegare questo concetto. Una notte feci un brutto sogno. Dormivo in stanza con mia sorella e sognai un uomo con un uomo coltello ai piedi del mio letto. Cominciai ad urlare e ad indicare quel punto della stanza. Mia sorella si alzò e insieme, urlando, scappammo lungo il corridoio, verso la camera da letto dei nostri genitori. Genitori che spaventati ci vennero incontro. Tutto finì con una gran risata. Mia sorella, senza aver valutato di cosa si trattasse, era subito corsa insieme a me verso la camera dei genitori. Io avevo fatto un incubo e avevo urlato tra veglia e sonno. Il mio urlare l’aveva spaventata e la sua paura aveva sicuramente rafforzato la mia. Il nostro sistema di difesa a qual punto si era attivato ed eccoci in un lampo nel corridoio… Si era attivata una risposta immediata che dobbiamo alle strutture più arcaiche del nostro sistema nervoso, che sono deputate a garantire la sopravvivenza, anche se in qual caso non c’era alcun pericolo. Se però, dopo un evento traumatico (un lutto improvviso, un incidente, una separazione) il sistema di difesa continua a restare attivo, ci comportiamo come se il pericolo fosse sempre presente e si instaurano problemi di ansia. Il trauma lascia nella nostra mente come delle cicatrici che ci condizionano alla paura. La vita scorre e l’ansia ne diventa la colonna sonora. Alcuni tra i sintomi che possono persistere dopo un evento traumatico sono: brividi, tremori, sensazione di freddo in tutto il corpo, iperventilazione. È presente eccitamento emotivo: rabbia, paura, irritabilità. E sul piano del comportamento troviamo iperattività: bisogno di muoversi, difficoltà a riposare e a rilassarsi completamente. Quando questi sintomi continuano a persistere a un mese e oltre dall’evento traumatico è importante chiedere aiuto per una psicoterapia specifica centrata sul trauma. Una via da seguire è quella basata sull’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) un trattamento evidence-based (basato sulle evidenze scientifiche) ed indicato dai servizi sanitari nazionali di vari paesi come psicoterapia di elezione per la cura del trauma. Il trauma verrà elaborato a livello cognitivo, emotivo e corporeo. Ciò permette, al termine del percorso di psicoterapia, una desensibilizzazione emotiva del ricordo dell’evento, arrivando alla radice del trauma in modo completo e profondo. Dopo le elaborazioni è di certo possibile tornare a vivere liberi dalla sintomatologia post-traumatica, quindi spegnere l’attivazione del nostro sistema di difesa, e smettere di sentirsi costantemente in pericolo. Il primo attacco di panico ci lascia l’ansia, un’ansia vissuta nel corpo e spesso scambiata per una malattia. Il disturbo da attacchi di panico è un disturbo che interessa circa l'8% della popolazione e colpisce una fascia di età sempre più bassa. Cinque milioni di italiani soffrono di attacchi di panico. L’attacco di panico arriva inaspettato. Non sapere di cosa si tratti spiazza e lascia attoniti, impauriti. La componente somatica di un attacco di panico è molto forte. Solitamente più e diversi sintomi possono invadere la persona: dispnea (la sensazione di mancanza d’aria), tremore, sudorazione, tachicardia, testa vuota, tremolio alle gambe, senso di svenimento. Questo per citare alcuni dei sintomi più frequenti. Si possono manifestare anche nausea, conati di vomito, scariche di diarrea. Quel primo attacco di panico talvolta attiva una serie di pensieri ricorsivi: paura di avere qualcosa di brutto, di avere una malattia organica. In realtà il panico è ansia, un’ansia che ha un livello di intensità molto alto ed è caratterizzata da un’intensa attivazione somatica. L’ansia è un’emozione, e le emozioni sono nella mente e soprattutto coinvolgono il nostro corpo. Il corpo non è diventato all’improvviso un corpo malato, e l’ansia non è una malattia fisica. Eppure il pensiero che i sintomi possano corrispondere ad una malattia fisica è molto frequente nella fase acuta, e soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’insorgere dell’attacco di panico. Spesso questo pensiero è presente in modo ossessivo e nonostante non accada nulla, o gli esiti di esami clinici a cui il paziente si sottopone siano negativi, resta nella mente la preoccupazione di avere “qualcosa”. Durante l’attacco di panico il soggetto può avere paura di impazzire, perdere il controllo o di morire. Questi pensieri non sono la realtà, ma pensare che non corrispondano alla realtà e non temerli, in quei momenti di intensa attivazione somatica, diventa difficile o impossibile. Ma non moriremo e non impazziremo. E’ arrivata un’emozione a dirci che il nostro sistema psichico non è più in equilibrio. Al lavoro della psicoterapia il compito di costruire insieme al paziente il significato di ciò che sta accadendo. Capire cosa ci ha fatti arrivare a stare tanto male, e se lo si sa, trovare il modo per cominciare a mettere in discussione delle credenze, mettere in atto comportamenti diversi che possano far stare meglio. Bisognerà inoltre lavorare sulla vergogna che pure tante persone vivono quando arriva questa emozione che fa sentire spaventati e indifesi, a 10, 20, 30, o 50 anni. Non importa quanti anni si abbiano. Il nostro organismo e la nostra psiche tollerano e incamerano fino a un punto in cui le strategie che stiamo usando per fronteggiare gli eventi di vita stressanti crollano. E’ spesso in momenti come questo che arriva l’attacco di panico. Arriva per dirci che abbiamo la necessità di fermarci a guardare dentro di noi. Dobbiamo lavorare su noi stessi per elaborare e sistemare le emozioni che ci siamo lasciati dietro e dentro. Dobbiamo lavorare per integrare quelle esperienze e trovare un nuovo adattamento. La psicoterapia aiuta a fare questo. E molto importate iniziare il prima possibile un lavoro terapeutico, per non rischiare di rimanere in questo stato molto a lungo, per non consolidare comportamenti di evitamento. Quando arriva il panico si iniziano ad evitare tante cose, non si esce spesso, ci si fa magari accompagnare al lavoro per paura di stare soli, si evita di prendere la metro, di recarsi in un supermercato, di uscire con gli amici. Gli evitamenti rafforzano la convinzione di non essere in grado di farcela. E la mancanza di vita e di relazioni generano alla lunga uno stato di tristezza. Affrontare il panico serve ad evitare gli evitamenti e a prevenire quelle complicate emozioni di tristezza e vergogna che in psicoterapia vengono chiamate emozioni “secondarie” alla paura, perchè sono ad essa consequenziali. Dunque, bisogna fermarsi e chiedere aiuto e non bisogna vergognarsi di vivere un momento in cui si è spaventati e tristi. Si tratta di emozioni. Noi viviamo di emozioni, nel bene e ne male.
Covid 19, anno 2021. Festa della donna ad un anno esatto dall’inizio della pandemia. Ci sono differenze nel modo in cui uomini e donne vivono questo tempo? La pandemia ha ulteriormente indebolito la condizione lavorativa delle donne? In generale possiamo dire che su molte donne pesa la condizione lavorativa dello smart working. Quante di voi sono a casa attaccate al computer dall’inizio della giornata e alternano un compito lavorativo ai compiti e/o alla DAD dei figli? Quante alternano una telefonata di lavoro al seguire la cottura del pranzo o della cena? Svolgendo una professione sanitaria ho avuto la fortuna di lavorare in studio ma lavoro qualche volta anche in modalità on line. Tra un’ora alle 19:00 farò l’ultima seduta della giornata proprio in questa modalità. La cena per questa sera è già pronta, ma meno di un mese fa mi si è bruciato il sugo. Mulitasking ma fino a un certo punto! Difficile essere totalmente assorbiti dalla mente di un altro, in una stanza con la porta rigorosamente chiusa e ricordarsi di stare cucinando. Eppure ci sono molte donne e mamme che ci riescono ogni giorno. Alcuni datori di lavoro hanno scambiato questa disponibilità a lavorare da casa come una disponibilità illimitata rispetto al fattore tempo che in tanti casi va ben oltre l’orario di lavoro. E non solo nel caso in cui lavori per uno studio di un piccolo privato, accade anche se lavori per una grande agenzia nazionale o internazionale. Lo smart working è una bella fregatura per le donne (lo è anche per gli uomini di certo, in alcuni casi) e per più di un motivo. La donna quando è in casa lavora in casa e se lavora anche a casa, allora difficilmente smette di lavorare. Quante donne hanno messo peso in quest’anno? Di certo non abbiamo più cucinato, e cucinato come all’inizio della pandemia. Manca il movimento che si faceva semplicemente per andare e tornare da lavoro. Manca, anche se era irrisorio, perché va moltiplicato per 365. Qualsiasi numero moltiplicato per 365 comincia a diventare un numero consistente. Ed eccoci qui con qualche chilo in più e molte chiacchierate in meno! Cosa fare? Come uscirne prima della fine della pandemia? Innanzitutto restando presenti a noi stesse. Non bisogna perdersi di vista. Se è tempo che non vi guardate allo specchio fatelo. Se è tempo che, lavorando da casa, non vi truccate più, ricominciate. Ricominciate a guardarvi, anche se quello che potreste vedere potrebbe non piacervi. Non fate evitamento con la vostra immagine. Guardatevi fuori e dopo guardate dentro di voi attraverso lo sguardo che si riflette dallo specchio, e poi sentitevi da dentro, prestate attenzione al vostro corpo, ai vostri muscoli, ai tendini e cominciate con una bella stiracchiata. Questo è solo l’inizio. Trovate il modo per fare una passeggiata per almeno 10 minuti al giorno. Fa niente se sarà anche solo per andare a gettare via la spazzatura. Il compito di sparecchiare e caricare la lavastoviglie lasciatelo ai familiari. Voi uscite un attimo a respirare a pieni polmoni, preferibilmente dopo aver gettato l’immondizia! Fate entrare un po' d’arietta fresca nella mente e buttate fuori qualche pensiero pesante. Stabilite un orario in cui tutto finisce, è possibile che vi sembri di vivere da tempo un unico lungo giorno, ma l’oggi e il domani ci sono ancora. Allora diventate consapevoli di questo e lasciate il resto a domani. Prendiamoci cura, noi siamo bravissime a prenderci cura, alcune tra noi lo sono meno quando la cura riguarda noi stesse. Prendiamoci lo spazio di un caffè, di un bagno caldo, o di una chiacchierata sul divano con marito o compagno se è quello di cui sentiamo il bisogno. Lasciamo il controllo, chiediamo collaborazione, invece di cadere nella passiva aggressività che fa solo male a noi e anche agli altri. Tante tra noi fanno le faccende mentre urlano e rimproverano di non ricevere aiuto. Ebbene non è quella la soluzione: chiedete, trovate delle strategie di collaborazione, otterrete aiuto quando capirete che il mondo non cade se mollate il controllo, e che il concetto di responsabilità in un determinato dominio può essere appannaggio anche degli altri membri della casa. Certo il direttore dei lavori dovrete essere comunque voi! Ottenere di più è difficile, dopo tempo magari istituirete la figura di un vice direttore esecutivo. Ma occorre tempo e pazienza. Il tempo c’è. Dobbiamo dirci, ogni volta che vogliamo intraprendere qualsiasi cambiamento, che abbiamo il tempo, che nel frattempo, scusate il gioco di parole, il tempo passa lo stesso. Bisogna iniziare, non importa quanto tempo ci vorrà, perché quel tempo passerà comunque… Buona festa della donna a tutte noi! I social al tempo del coronavirus
E’ una fortuna oggi poter usufruire della comunicazione virtuale. L’etere ci è venuto in soccorso diventando l’unica modalità attraverso cui poter comunicare in condizioni di totale sicurezza. Cosa sta cambiando, in questo periodo, nell’uso nonché nei contenuti dei social media? Di certo si registra un aumento del tempo che tutti trascorriamo dietro lo schermo; per diversi motivi che vanno dal lavoro allo studio, alla comunicazione, alla ricerca del “relazionale”, alla ricerca di informazioni. Ci interessano le informazioni della politica e degli scienziati sulla pandemia. E anche in questa occasione, come in altri periodi, non siamo immuni dal poter cadere vittime delle fake news o dal dare ascolto a personaggi dello spettacolo o del popolo che di pandemia non sanno assolutamente nulla. Dovremmo accettare, per quanto sia poco rassicurante, che anche gli scienziati non ne sanno molto e sono al lavoro per scoprire chi è il COVID19 e come agisce. Gli scienziati e i ricercatori fanno ciò attraverso la ricerca, non quella su google, ma quella "seria" che si fa nei laboratori e che da anni ha adottato il metodo sperimentale. Apro la pagina di FB, la guardo con gli occhi di un osservatore che cerca di farsi attento e noto che si sono moltiplicati i video di cucina e vedo foto di tanti piatti dall’aspetto piuttosto invitante. Per contro sono in netta riduzione i selfie (anche quelli a cui vengono applicati i filtri cancella rughe e illuminanti dei volti). Il cambiamento dei social riflette come uno specchio, anche se con qualche inevitabile deformazione, il cambiamento di alcune nostre abitudini. E un cambiamento sta nel fatto che molte donne sono tornate alla cucina. Sono tornate alla cucina perché prima ancora sono tornate ad essere nelle case all’ora di pranzo e di cena. Nessuno è assente, tutti presenti, in qualsiasi giorno della settimana intorno alla tavola come non accadeva dal tempo dei nostri nonni. La nostra mente attiva dei meccanismi per proteggersi dalla paura e dall’orrore e per fortuna molti attivano risorse, scoprendo o riscoprendo resilienza e doti che non sapevano di avere. Cosa posso fare di più rassicurante che cucinare per creare calore e coesione? Il piatto caldo, il dolce anche un po’ elaborato rappresentano una risposta, la risposta della famiglia che si è ritrovata e che si raduna intorno ad un focolare nuovo. I piatti che vediamo non rispecchiano semplicemente una moda, sono lo specchio di una risposta o di un tentativo di risposta rassicurante. All’interno delle case quei piatti vengono cucinati talvolta anche insieme ai propri ragazzi e al partner se presente. Fuori dalle generalizzazioni siamo consapevoli che non per tutti la casa è un luogo sicuro, e che essere soli in questo periodo può accentuare il senso di solitudine. Anche il canto ai balconi è stato una risposta, così come lo sono state le scritte “andrà tutto bene” esposte alle finestre di molte case degli italiani. Ma questo fenomeno ha avuto una durata temporale minore. Questo fenomeno è stato l’agito di un impulso forte alla socialità, che ha cercato un modo in cui poter “essere con”, un modo per potersi almeno sentire, lì dove non si riusciva magari neppure a vedersi. Purtroppo però non abbiamo nel nostro substrato culturale una storia di comunità fondata su un legame, già preesistente, con il nostro vicinato. Noi abbiamo un substrato di cultura di isolamento dal vicinato, di libertà assoluta nella scelta delle relazioni che vogliamo coltivare. Del nostro substrato non fa parte la vicinanza spaziale, ne fanno invece parte la libertà dell’esplorazione e della scelta, operata sulla base della “comunità” di interessi, delle affinità o, ahimè, del consumo e dell’utilità! Abbiamo invece nel nostro immaginario un focolare, la cui idea non è del tutto sbiadita, conserva ancora una forza; un focolare dunque a cui poter attingere perché più “vicino” a una radice da cui è pur vero che ci siamo allontanati ma non tanto da non poterla ritrovare. Un’altra figura che riempie le pagine dei social è quella dell’operatore sanitario, nella veste del medico, degli infermieri, degli operatori che a vario titolo sono in ospedale, e dunque sono esposti ad un enorme rischio fisico e psicologico. Dottori e infermieri sono dipinti come eroi, anche se vorrebbero che noi smettessimo di chiamarli in questo modo, che rimanessimo invece a casa per dare loro una mano, e che lo stato aumentasse i loro stipendi. Sarebbe giusto: mi chiedo quale potrebbe essere il valore in termini economici da corrispondere a tutti coloro che in questo momento stanno correndo un rischio mai messo in conto perché impossibile fino a “ieri” da prevedere. Gli operatori sanitari sono come in una guerra, soprattutto coloro che lavorano nelle stanze delle rianimazioni e stanno vivendo esperienze di traumatizzazione a causa delle quali, quando la loro “guerra” sarà terminata, avranno bisogno di un aiuto specialistico per elaborare ciò che oggi non è ancora possibile elaborare. E ancora, tra le altre che vorrei citare, ci arrivano le immagini del mondo lì fuori; Immagini di città che, vuote, esprimono tutta la loro bellezza, anche se ci trasmettono un senso di desolazione. Ci arrivano poi immagini della natura, paesaggi, scorci di spiagge e di mare. Ci arriva l’immagine di un mare limpido e cristallino, ora che noi lo stiamo lasciando respirare. E la natura è lì a dirci che vive da molto prima di noi, e che senza di noi respira meglio, perché il coronavirus è il nostro virus come noi siamo il suo. Psicoterapia on line
Ultimamente in Italia si può fare psicoterapia on line grazie alle nuove linee guida dell’Ordine Nazionale degli Psicologi che consentono di effettuare colloqui di tipo psicoterapeutico attraverso la webcam. E’ stato tolto il veto di fare terapia on line ed è stata data allo psicoterapeuta la possibilità di decidere se sia o meno opportuno fare una psicoterapia a distanza, via webcam. Ciò consente allo psicoterapeuta di valutare in autonomia l’opportunità o meno di effettuare un percorso di psicoterapia online e mette in pari la situazione italiana con quanto già accade negli Stati Uniti e nel resto d’Europa. Usufruendo di consulenze psicologiche direttamente da casa si abbattono i costi del viaggio e i tempi dello spostamento, per il paziente ci sono quindi benefici anche economici, non dovendo egli affrontare i costi del trasporto per gli spostamenti verso lo studio del professionista. Sicuramente i servizi online possono avere un enorme potenziale nell'aumentare l’accessibilità al'’assistenza psicologica. Di essi ne possono usufruire anche persone con difficoltà nella mobilità, persone che vivono in luoghi difficilmente raggiungibili, in cui vi è una ristretta scelta di servizi; ne possono usufruire le persone che per lavoro hanno una limitata disponibilità oraria oppure sono costrette a trasferirsi in paesi dove consultare un professionista della salute mentale diventa complicato a causa della lingua. Ne possono usufruire anche le persone disabili e i loro stessi caregiver. Inoltre, c’è chi ha paura di essere stigmatizzato in quanto fruitore di determinati servizi ma potrebbe provare meno vergogna nel chiedere aiuto in rete (Mitchell & Murphy, 1998 citati in Rochlen, Zach & Speyer, 2004). Un altro target di pazienti, che può essere più facilmente agganciato grazie ai servizi di psicoterapia on line è quello degli adolescenti che si isolano e che non vogliono andare più a scuola. (Cuijpers, Van Straten & Andersson, 2008 citati in Apolinario-Hagen & Tasseit, 2015). Il fenomeno dell’isolamento sociale, tra l’altro riguarda anche gli adulti soprattutto nella fascia di età dei 40 anni: alcune ricerche evidenziano tendenza all’isolamento sociale da parte di individui di sesso maschile, l’età media dell’esordio è intorno ai 40 anni ed il periodo medio socialmente ritirato è di 3 anni. Anche questa fascia di utenza potrebbe approcciarsi ad una psicoterapia on line, come punto di partenza e di ripartenza. Potrebbero trarne giovamento le persone semplicemente indecise o poco motivate nell’intraprendere una terapia, per queste persone potrebbe risultare meno faticoso provarci prima online (Gupta & Agrawal, 2012; Heinlen, Welfel, Richmond & Rak, 2003b; Postel, Hein, Elke, Eni & Cor, citati in Hrivnak, Coble & Byrd, 2015). Invece una delle prime difficoltà che si potrebbero riscontrare consiste nel fatto che non tutti i pazienti potrebbero essere dei candidati ideali per usufruire di questi tipi di servizi. Un modo per gestire questo punto a sfavore potrebbe essere quello di fare un attenta valutazione dei pazienti e di lavorare solo con coloro che saranno nelle condizioni di beneficiare del servizio (Suler et al., 2001, citato in Rochlen et al., 2004). Secondo alcuni autori sarebbe comunque raccomandabile incontrare il paziente di persona almeno una volta (Doverspike, 2009, citato in Hrivnak et al., 2015). Il linguaggio del corpo e i segnali non verbali sono assenti nello scambio di email e poco disponibili durante le videochiamate, ciò potrebbe portare a più alti tassi di incomprensione o difficoltà di comunicazione (Gupta et al. 2012, citato in Hrivnak et al., 2015). Tuttavia gli interventi di psicoterapia online, in particolar modo quelli in cui si è utilizzata la terapia cognitivo comportamentale, hanno ottenuto prove di efficacia in vari studi. Inoltre l’American Psychological Association (APA), l’associazione più importante della psicologia a livello mondiale, che elabora le linee guida internazionali della psicopatologia, ha studiato il fenomeno della psicologia online traendone risultati incoraggianti e di fattiva efficacia. L’ansia, tra il fai da te e la cura: credenze da sfatare e tecniche psicoterapeutiche
E’ di certo esperienza comune a tutti quella di essersi sentiti in ansia in relazione a un qualche evento. Eventi interni (mi gira la testa, cos’avrò?) ed esterni (c’è il temporale, non sono un bravo guidatore, potrei fare un incidente) possono attivare l’ansia. Cosa provo e penso se sono in ansia? Ho un pensiero chiaro (cos’avrò?/farò un incidente), oppure ho un pensiero che faccio fatica a rintracciare, e allora mi chiedo perché mi stia sentendo in ansia; ho inoltre le sensazioni che il corpo sta provando per l’attivazione del sistema nervoso simpatico. Si chiama “simpatico” ma la sua attivazione provoca talvolta sensazioni “antipatiche”, di queste sensazioni mi posso ulteriormente spaventare: tremo, aumenta la sudorazione, sento un nodo allo stomaco, posso sentirmi tutti i muscoli tesi come le corde di un violino. I sintomi dell’ansia sono molti altri ancora: tachicardia, difficoltà a dormire, vertigini, mancanza di energia, frequente bisogno di urinare etc. Fortunatamente non sono tutti presenti contemporaneamente. E meno male! Alcune persone sperimentano l’ansia con un tipo di attivazione fisiologica, altre con altri tipi di attivazione. A tutti capita di sperimentare ansia in alcune circostanze, il problema c’è quando l’ansia diventa costante e pervasiva. Accade di svegliarsi già stanchi, con una sensazione di apprensione e preoccupazione per la giornata che si ha davanti a sé. Con l’ansia costante, ogni giorno viene percepito lungo e faticoso da vivere. In questo caso, si soffre di un disturbo definito “Disturbo d’ansia generalizzato”. Molte persone, per fronteggiarlo, ricorrono agli ansiolitici, prescritti dal medico di base, o dallo psichiatra. Di solito preferiamo il medico di base perché ricorrere allo psichiatra ci farebbe apparire “pazzi” ai nostri occhi e/o a quelli degli altri. Molte altre persone tollerano questo stato senza riuscire a chiedere aiuto, hanno la credenza di dovercela fare da sole, e/o sono guidate dai consigli di parenti, amici. Questi ultimi dicono loro che devono “fortificarsi”, che ce la devono fare da sole, il risultato dipende dalla loro volontà (devi essere tu…). Allora gli ansiosi continuano la loro estenuante lotta contro l’ansia e si sentono anche un po’ stupidi perché l’ansia non passa. Il fai da te, per stare meglio, attiva spesso il meccanismo di paragonarsi a chi sta peggio; allora gli ansiosi possono pensare che in Africa i bambini muoiono per la fame, che ci sono bambini molto piccoli che si ammalano di cancro, sono quelli i veri drammi! In quei momenti finiscono per percepirsi anche superficiali, immaturi e si rimproverano per non riuscire ad essere sereni. La fame nel mondo, alcune malattie organiche sono un dramma, lo è tutto ciò di spiacevole a cui si può paragonare la propria patologia, con l’obbiettivo di sentirsi meglio, ma questi paragoni non sono pertinenti: l’ansia generalizzata è un disturbo, è un problema che arreca molta sofferenza. Chi ha un disturbo d’ansia generalizzato sta vivendo un periodo in cui si preoccupa e rimugina su molte cose. Le preoccupazioni degli ansiosi possono vertere su diverse tematiche: la famiglia, la salute, i figli, il lavoro. Gli ansiosi riconoscono che preoccuparsi aggrava il proprio stato, provano a non farlo, ma senza riuscirci. Talvolta possono trascorrere anni restando in questa situazione che sfianca e logora. Anche l’idea di andare dallo psicologo provoca dell’ansia! A volte è già difficile fare “quella telefonata”. Dal momento in cui si comincia a pensarci a quello in cui si agisce, possono passare mesi, talvolta anche anni. Ci sono ancora molte credenze da sfatare riguardo la psicoterapia, nonostante sia aumentato di molto il numero delle persone che scelgono di seguire un percorso di questo tipo. Di recente, un paziente adulto ma che vive nella famiglia di origine, alla sua prima seduta, mi ha detto di non aver reso i genitori partecipi della decisione di intraprendere un percorso di cura perché questi ultimi non credono nella psicoterapia. Ebbene la psicoterapia non è una fede, molto male se lo fosse! Se sceglierai di seguire un percorso di psicoterapia ti troverai di fronte ad un professionista, laureato e specializzato in una branca della psicoterapia (le psicoterapie sono diverse) con in più la sua esperienza clinica. Molto probabilmente sarà una persona empatica, che avrà dalla sua parte una “cassetta degli attrezzi” contenente tecniche di intervento e saprà fornirti gli strumenti per fronteggiare i tuoi disagi; in questo caso specifico sarà in grado di aiutarti a fronteggiare il tuo disturbo d’ansia. Se sceglierai un terapeuta cognitivo comportamentale, non starai steso su un lettino, ma seduto di fronte a lui, la seduta inizierà probabilmente con il tuo racconto di quando hai cominciato a stare male, delle situazioni in cui si attiva di più l’ansia… Nel corso delle sedute, cooperando con il terapeuta, riscriverai quel racconto, incasellerai dei pezzi. Il terapeuta ti fornirà degli strumenti che aumenteranno la consapevolezza dei pensieri che ti creano ansia. In psicoterapia cognitiva, i pensieri sotto la soglia di coscienza, vengono chiamati pensieri automatici; una volta imparato ad individuarli li potrai collegare più facilmente alle tue emozioni e crescerà in te la consapevolezza dell’origine delle tue azioni/reazioni. Questo è solo il punto di partenza. Identificherai i pensieri, li metterai in discussione; nel caso tu stessi mettendo in atto degli evitamenti (non guidare la sera, non prendere l’aereo etc.) ti esporrai secondo un programma concordato e graduale, alle situazioni che stai evitando, iniziando dalle meno temute; questo sarà possibile perché intanto avrai acquisito tecniche per regolare l’ansia. Farai un lavoro sulla paura di avere paura, e su quelle che vengono definite emozioni secondarie che ti ostacolano nella regolazione dell’ansia, per esempio ti vergogni di avere paura? Pian piano toglierai dei pesi, li lascerai andare… Non sempre i pesi sono fuori di noi, talvolta sono dentro, presenti come credenze, come un “dover essere”, come controllo, perfezionismo… Ognuno ha i suoi pesi, i nostri pesi guidano il comportamento e quello che viviamo, o non viviamo, li rafforza a sua volta. Questi sono solo alcuni aspetti di un processo che la terapia apre, e che prosegue seguendo il ritmo del tuo passo. Questo processo ti porterà a comprendere che puoi modificarti molto di più rispetto a quanto credi. Questo articolo è rivolto in particolar modo ai genitori dei bambini nati nel periodo dei maggiori cambiamenti tecnologici. E’ rivolto a quei genitori che intorno ai 30 anni sono diventati essi stessi genitori social, e senza poter avere alcuna misura di quelle che potevano essere le conseguenze dell’affidare la tecnologia ai loro bambini (che sono cresciuti con tablet, xbox, play-station e cellulari) lo hanno dunque fatto in modo inconsapevole. Come potevano immaginare che l’uso dei social, dei videogiochi etc. potesse essere più attraente dell’andare a giocare fuori, dell’andare fuori a incontrare gli amici? Come potevamo noi adolescenti, cresciuti tirando pian piano l’orario di rientro a casa, pensare che ci potesse essere una nuova adolescenza che avrebbe preferito starsene a casa a chattare, giocare on-line, prima che vedersi con gli atri, uscire, esplorare? Anche noi eravamo cresciuti con in casa uno strumento tecnologico, di cui i nostri genitori limitavano l’uso, per l’uso del quale talvolta ci rimproveravano: “Stai sempre attaccato/a alla televisione!”. Ma poi la tv si spegneva e il mondo, l’unico che conoscevamo, quello reale, si accendeva, e ogni cosa per noi e per i genitori tornava al proprio posto (o restava fuori posto se c’erano problemi nella realtà familiare o sociale). Ma non c’erano altri posti, altri mondi, non c’era il mondo virtuale che noi abbiamo visto nascere e crescere in modo esponenziale, fino a non conoscerne più, perché impossibile, tutti i contenuti. Fino a non poterne conoscere i confini perché confini non ci sono: immaginiamo una bolla contenente milioni, miliardi di informazioni e altrettanti collegamenti tra queste, in enorme e continua espansione. Ad alcuni sembra che questa bolla si sia portata dentro i propri figli (entrare con loro e capire i contenuti da cui sono attratti probabilmente è una delle cose che in primis bisognerebbe fare). Quando parlo della bolla che ha risucchiato dentro i ragazzi non mi riferisco esclusivamente al fenomeno degli Hichikomori, che ne costituisce l’estremizzazione. Secondo i dati forniti dall'Osservatorio Nazionale Adolescenza, 5 adolescenti su 10 trascorrono circa 6 ore della loro giornata extrascolastica attaccati ai telefonini, con punte di 10. Cosa avrebbero fatto in quelle ore se non ci fossero stati gli strumenti tecnologici? Probabilmente avrebbero vissuto, come noi ci aspettavamo, un’adolescenza simile a quella vissuta da noi nel passato. Avrebbero incontrato gli amici a casa propria, sarebbero stati ospitati da loro. Tutti gli adolescenti di un condominio si sarebbero conosciuti di sicuro in modo più profondo di quanto si conoscono oggi; avrebbero meno amici, ma probabilmente amicizie più intense, sarebbero andati di più in giro a conoscere, prima il quartiere e dopo la città… Il punto non è solo quello che avrebbero fatto ma come la loro personalità sarebbe stata modificata e arricchita da quelle esperienze. Il punto è come la loro personalità venga modificata e arricchita dalle esperienze virtuali; e se a un arricchimento in certe aree, non corrisponda uno svuotamento in altre. Per esempio, manca quasi del tutto una solitudine costruttiva, che non sia quella virtuale a cui ci riferiamo ormai con un’accezione negativa. Quali sono le occasioni in cui gli adolescenti restano da soli con loro stessi e i propri pensieri? Prima dell’avvento delle nuove tecnologie erano molti i momenti in cui restare con se stessi; capitava per esempio che alla fermata di un autobus, si stesse da soli con sé e che quello diventasse un momento di riflessione, di immaginazione o di frustrazione, e se di frustrazione, si accorreva alla propria mente e ai suoi strumenti per fronteggiarla. Ci si scopriva capaci di tollerare l’attesa, la noia, trovando in sé i mezzi: riflettendo, immaginando, socializzando, oppure semplicemente osservando. C’era un momento di attesa, prima della festa, prima dell’uscita, prima del primo bacio, in cui pensare e immaginare a come sarebbe andata. E c’era il momento successivo quando, chiusi in camera, si ripensava all’appena vissuto, magari affidando ad un diario quelle emozioni, e questo di certo aiutava ad elaborarle, ad assorbirle prima di passare oltre. Oppure c’era la telefonata all’amica del cuore, o all’amico per raccontarsi, nei limiti di quello che si sceglieva. Oggi le relazioni e la loro fruizione è sempre più veloce, un ragazzo o una ragazza può scriversi in contemporanea con 10 amici e 5 fidanzate/i. Immaginate noi genitori rispondere al telefono fisso in continuazione e smistare ai nostri figli una ventina di telefonate BREVI, dalle ore venti alle ventitré, ma anche le ventiquattro per i più grandi. Ci sembrerebbe una follia. Coinvolgerebbe anche noi e probabilmente non glielo permetteremmo. Ma neppure loro lo farebbero! Non si è mai visto! Ma è quello che accade oggi in forma diversa, è ciò che accade, senza coinvolgerci (ci lascia fuori, dalla loro stanza, dalle loro chat, dalla loro privacy, dalla loro testa) e rientra nella norma. E’ la velocità e la brevità delle informazioni che gli adolescenti scambiano a permettere loro di socializzare con tante persone nello stesso momento. Con l’attenzione ferma su cosa? Un po’ su tutto, un po’ su niente. O magari su un video che, mentre fanno tutto questo, stanno anche guardando. Quali sono i vantaggi di questa nuova forma di comunicazione? A chiederlo a loro neppure saprebbero cosa rispondere perché non conosco il vecchio modo di comunicare. Ci direbbero che è il loro mondo, che sono le loro relazioni, i loro amici e che se togliessimo loro gli smartphone toglieremmo loro tutto questo. E noi siamo in grado di dare una risposta? Credo di no. Di certo cominciamo a capire gli svantaggi di un uso pervasivo ed eccessivo. C’è il tentativo di limitare l’uso della tecnologia perché, che questa usata in modo pervasivo provochi danni, è un dato ormai accertato. Secondo l’ Osservatorio Nazionale Adolescenza, dopo il disordine e i compiti, la maggior parte dei litigi tra genitori e figli avvengono a causa di smartphone e PlayStation. Nella fascia dai 14 ai 19 anni, più di 4 adolescenti su 10 litigano e vengono rimproverati dai propri genitori a causa del tempo eccessivo che trascorrono attaccati allo smartphone e l'11% a causa di un eccessivo utilizzo dei videogiochi.
Da questi conflitti scaturiscono, solitamente, una serie di punizioni sempre più frequentemente di tipo digitale: ricatti e minacce legate al cellulare oppure al cambio della password del Wi-Fi, per impedire ai figli di connettersi o per disconnetterli da tutti i dispositivi collegati ad internet. Oggi, numerose ricerche hanno messo in relazione la diffusione dell’uso degli smartphone e i disturbi d’ansia e depressivi. Una ricerca mette in relazione l’aumento della depressione, dei tentativi di suicidio e dei suicidi nei giovani nati dopo il 1995 e la diffusione degli smartphone e più in particolare dei social network. Ovviamente questo non significa che il cellulare causi disturbi depressivi, le cui origini possono essere influenzate da moltissimi fattori sia genetici che ambientali, come la famiglia in cui si cresce, eventi particolarmente segnanti, ma anche le condizioni di vita materiali. Lo smartphone può comunque influire pesantemente su queste ultime variabili, contribuendo ad esempio all'isolamento sociale, al bullismo da parte dei coetanei e alla privazione del sonno. Lo stesso discorso può essere fatto per i disturbi d’ansia. In alcuni casi l’instaurarsi della dipendenza dalle nuove tecnologie, le ormai note “new addiction”, rappresenta un nuovo modo per esprimere il disagio; lo stesso che un tempo veniva espresso facendo ricorso alle sostanze psicotrope, al gioco d’azzardo etc. E' possibile che la personalità che si struttura con l’uso delle nuove tecnologie sia più vulnerabile e dunque predisposta maggiormente a sviluppare disagi. La regolazione emotiva, la socializzazione, gli interessi, lo sviluppo di abilità come quella della scrittura o quella di usare uno strumento musicale, sono tutte abilità che si strutturano durante la crescita e che diventano parte della personalità e risorse per interagire con l’esterno durante tutto l’arco della vita, sia durante l’adolescenza che nel corso dell’età adulta. Si tratta di abilità che entrano a far parte di quella complessa conquista della propria identità che è compito fondamentale dell’adolescente. Quando si avrà ancora il tempo, una volta entrati nel mondo del lavoro, di potersi dedicare anima e corpo ad imparare a suonare il piano o la chitarra? Quando si potrà imparare a tollerare la frustrazione della giornata lavorativa, del capo rompipalle, e tanto, tanto altro ancora, se non si sono già maturati degli strumenti psicologici ante tempo? Il poter accedere ad una rete sociale stabile è un’altra risorsa necessaria e protettiva per esempio nel corso di eventi di vita stressanti o traumatici. Tutte queste abilità corrono il rischio di non essere implementate nel modo migliore, e questo può contribuire alla costruzione di personalità più vulnerabili allo sviluppo di disturbi d’ansia o depressivi. Cosa fare? Cosa faremmo se ci accorgessimo che nostro/a figlio/a sta per sviluppare oppure ha sviluppato una dipendenza da sostanze psicotrope o dal gioco d’azzardo? Sicuramente entreremmo in qualche modo in azione. La maggior parte di noi di certo non starebbe a guardare o a normalizzare. Quando si parla delle tante ore trascorse dai figli utilizzando le nuove tecnologie ci sentiamo dire e ci diciamo che ormai lo fanno tutti. Assistiamo o mettiamo in atto un esplicito tentativo di normalizzazione: “passarci quattro, cinque ore al giorno rientra nella media!”. Ebbene il fatto che un comportamento poco salutare sia messo in atto da molti, tutti, non lo rende più salutare. Dobbiamo essere attenti ai sintomi dei nostri ragazzi e se notiamo sintomi importanti come chiusura sociale, atti autolesivi, depressione, non dobbiamo esitare dal consultare un addetto ai lavori. Ma prima ancora di arrivare a questo, occorre fare prevenzione. Per esempio ci sono programmi che noi genitori possiamo installare sugli smartphone dei nostri figli che limitano la connessione nell’arco di un tempo che può sembrarci ragionevole. Questo tempo nel caso degli adolescenti va contrattato con loro. Se c’è una vera dipendenza dobbiamo aspettarci che intervengano sintomi di astinenza, dall’umore disforico, agli agiti rabbiosi. In quel caso, visto che noi saremo diventati i loro peggiori nemici, potremo farci aiutare a ripristinare un dialogo sereno, e ad agire insieme a loro in modo cooperativo, dagli addetti ai lavori. Inoltre, contemporaneamente, dobbiamo fornire ai ragazzi alternative che possano interessarli. Questo vuol dire coinvolgerli nelle uscite, essere disponibili a favorire incontri con i loro coetanei, ad ospitare amici a casa nostra. E se dopo la casa sarà sporca o non perfettamente in ordine, pazienza! Impareremo a coinvolgerli anche nel mettere ordine e loro svilupperanno nuove abilità. Tutto ciò richiede un grande impegno da parte nostra, oltre che da parte loro, ma è necessario. Sicuramente quando l’ impegno inizierà a dare i suoi frutti ne risulterà un miglioramento, non solo delle condizioni di vita dei ragazzi ma di quelle dell’intero sistema familiare. "Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo". Sigmund Freud
Vero, l'amore è un investimento. Investiamo risorse, pensieri, i nostri sentimenti. Siamo, in qualche modo, programmati per amare. Nonostante viviamo nell'epoca dei legami liquidi, per dirla alla Bauman, non è vero che non ci si innamora più, non è vero che la ricerca della vicinanza emotiva sia sparita dal nostro DNA. Il punto sta più nella difficoltà e talvolta nell'incapacità a vivere i legami in modo stabile. In alcune occasioni l'Altro è un bene da consumare, da usare per poi allontanarsi alla ricerca di qualcos'altro: ci troviamo nell'area del consumismo sessuale, del consumismo emotivo e relazionale, del legame liquido. In altre situazioni, i rapporti sono vissuti attivando un sistema di allarme continuo, con la paura di essere traditi, lasciati, ignorati. In quel caso il messaggio a cui il partner non risponde diventa da subito la spia di un allontanamento, di un suo coinvolgimento in altre relazioni. E qui siamo, probabilmente, nell'area della dipendenza affettiva. Altre volte è il sistema agonistico ad essere sempre acceso. Ricordate il film "La guerra dei Roses"? Ecco, talvolta si accendono meccanismi distruttivi come quelli che, nel film, si accendono tra i Roses. Si attivano i sistemi agonistici di entrambi i partner, in forma meno eclatante o in modo diversamente eclatante! Altre volte ancora, il legame è un contratto che il tempo e la lontananza hanno svuotato di senso... Altre volte è un legame fatto di maltrattamenti ed abusi, spesso da parte del partner più forte. Questo legame talvolta si conclude con la morte, con la tragedia inaspettata, o silenziosamente temuta, da familiari e amici e dalla vittima stessa. Altre volte ancora... e qui ognuno potrebbe continuare la frase attingendo alla propria esperienza o a quella dei propri genitori o amici, conoscenti, e la frase potrà anche concludersi "bene". Per quale motivo abbiamo questa spinta a costruire un legame? Di certo il sistema motivazionale sessuale fa la sua parte, ma questo costituisce soltanto una parte della spinta a costruire un legame, tanto che può attivarsi indipendentemente dall'interesse a costruire il legame stesso. Bowlby, uno psicologo e psicoanalista britannico, anni addietro, elaborò quella che oggi è la ben nota teoria dell'attaccamento, secondo la quale tutti abbiamo bisogno di una figura di attaccamento da cui essere confortati se tristi, rassicurati se spaventati. E tutti abbiamo dentro di noi un modello della figura di attaccamento che dipende dalle nostre prime esperienze d'amore. Il nostro modello ci dice cosa aspettarci e cosa meritiamo dall'altro. Le primissime esperienze d'amore e le altre vissute quando la nostra personalità si stava strutturando, accendono un faro e ci indicano una strada. La strada dell'essere vittime dell'abuso, o dell'essere prevaricatori o arrabbiati, dell'essere dipendenti e spaventati, dell'essere amorevoli e sicuri di ricevere affetto e protezione e di poterli fornire. In alcuni casi per amare ed essere amati dobbiamo fare un lavoro su noi stessi per cambiare la direzione del nostro faro. |
AutoreDott.ssa Assunta Giuliano Archivi
Marzo 2022
Categorie |